Ancora sangue sull'Europa. Sangue innocente, di studenti, di famiglie, di turisti, di funzionari. A nome del nostro Governo ho risposto parlando da Palazzo Chigi martedì scorso. Qui trovate i dieci minuti di video. E qui, per gli interessati, il testo.
In tanti mi scrivete: "Matteo, non aver paura di pronunciare la parola giusta. E la parola giusta è guerra". Non credo che la parola guerra sia la parola giusta. E lo dico sapendo di andare contro il pensiero dominante. Non è un problema semantico o lessicale: utilizzare la parola guerra può servire per mettere al caldo le nostre insicurezze. Ma paradossalmente finisce per fare il gioco dei nostri nemici. Sono loro che vogliono parlare di guerra. Sono loro che hanno bisogno della nostra paura. Ci vogliono morti, ma se rimaniamo vivi ci vogliono paralizzati dal terrore. Noi dobbiamo reagire. Distruggendoli, certo. Ma la guerra è fatta da stati sovrani, il terrorismo da cellule pericolose o spietate che non meritano di essere considerate stati sovrani. Loro vogliono farsi chiamare ISIS, Stato Islamico. Noi li chiamiamo Daesh.
Spero che questo possa rispondere al quesito terminologico. La sostanza però è un'altra. Occorre una reazione durissima nella distruzione di queste cellule, certo. E poi occorre un gigantesco investimento educativo e culturale. Perché l'educazione è il principale fattore per la sicurezza di un popolo. E ci investiremo, senza rinunciare alla nostra identità, ai nostri valori, ai nostri ideali.
L'Italia ha scelto una strada: per ogni euro investito in sicurezza, un euro investito in cultura. Per ogni euro investito in polizia, un euro nelle nostre periferie.
Credo che questo serva anche all'Europa.
Per mesi ci hanno spiegato di essere terrorizzati dalle minacce esterne. E poi ci siamo resi conto - qualcuno di noi lo diceva da tempo - che il vero problema è dentro le nostre città, in un radicalismo nichilista che spesso prende in ostaggio l nuove generazioni. Le periferie europee e talvolta le prigioni europee diventano il luogo dove giovani vite vengono attratte da una prospettiva esistenziale folle e autodistruttiva: il controllo sul territorio va fatto anche lì. Con le camionette dell'esercito, certo. Ma anche con i maestri elementari. Con l'illuminazione e le forze di polizia, ovvio. Ma anche con il volontariato e il terzo settore.
è una sfida difficile, durerà mesi, forse anni. Ma l'Italia dei nostri nonni ha attraversato la notte del fascismo, l'Italia dei nostri genitori ha superato il brigatismo e il terrorismo interno, l'Italia di quando eravamo studenti liceali è stata più forte delle bombe della mafia. Supereremo anche questa e mi conforta leggere tante vostre lettere, belle (tra le altre vi segnalo qui una di Jacopo, qui una di Nicholas). A condizione di restare noi stessi. Di non farci piegare dalla superficialità, dalla demagogia, dal semplicismo vuoto e becero di chi punta a prendere voti anche sulle disgrazie. Dopo vicende come queste compito di chi guida un Paese è cercare di tenere tutti uniti, indipendentemente dalle singole idee politiche. Verrà la campagna elettorale e ciascuno dirà la sua. Ma quando c'è una vicenda come quella di Bruxelles, prima di tutto vengono la sicurezza nazionale e i valori condivisi di una comunità.
Le ragazze dell'Erasmus in Catalogna
Perché - lasciatemelo dire - nonostante una retorica stanca e polverosa l'Italia è una comunità, molto più di quello che sembra. Ce ne siamo accorti il primo giorno di primavera, quando la vicenda terribile delle giovani vittime della strada in Catalogna ci ha reso tristi, insieme. Sette di queste ragazze Erasmus erano italiane, Francesca, Lucrezia, Valentina, Elena, Serena, Elisa ed Elisa. Sono andato a Tarragona a salutare le loro famiglie, portando loro l'affetto di tutti voi, di tutti gli italiani.
Tutti i giorni, lo sappiamo, muoiono innocenti sulla strada. E il nostro impegno per la sicurezza non è finito con l'approvazione della legge dell'omicidio stradale, ma deve continuare e continuerà, giorno dopo giorno. E allora perché la vicenda catalana ci ha colpito in modo così profondo? Forse perché sono sette ragazze così sorridenti e piene di vita che ti sembra impossibile pensare che non ci siano più. Forse perché l'Erasmus ha ormai segnato diverse generazioni, da toccare praticamente ogni famiglia italiana. E sembra impossibile morire durante l'Erasmus che è un'esplosione di vita. Un inno alla vita. Ma forse soprattutto perché ci sentiamo comunità molto più di quello che pensiamo. E se siamo una comunità, il dolore di quei genitori non può esserci estraneo, lontano.
La Rai
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